Chi fa da sé fa per tre? Le condizioni di successo del crowd nei processi di innovazione

User innovation, open innovation, co-generation, co-production, crowdsourcing sono tra le nuove forme di stimolo alla generazione del nuovo che hanno in comune il fattore openess, ossia l’apertura della risoluzione dei problemi al di fuori delle imprese, e il coinvolgimento del crowd. Ma perché e quando conviene rivolgersi al crowd? La letteratura riflette sui vantaggi del fare innovazione facendo ricorso a un gruppo sociale: ma quando si manifestano davvero e quando invece è meglio fare da soli?

Introduzione

Come stimolare il processo creativo che dalla generazione del nuovo conduce all’innovazione, è da sempre al centro dell’interesse delle organizzazioni e degli studiosi di management. In letteratura sono apparsi recentemente alcuni tentativi di comprendere e dare senso alle nuove forme di generazione del nuovo e di sviluppo dell’innovazione che hanno in comune il fattore openess, ossia l’apertura della risoluzione dei problemi al di fuori delle imprese, e la potenzialità del coinvolgimento di tanti player, anche imprevisti, e che possono arrivare a coprire una folla, il crowd. Essi riconoscono un ruolo centrale alla cosiddetta sociality.

Presentiamo e discutiamo di seguito questa idea, con l’obiettivo di stimolare una riflessione intorno ai fattori che, da un lato, spiegano il successo di queste nuove forme, e dall’altro, suggeriscono nuove sperimentazioni che ne esaltino il potenziale.

Il centro della generazione del nuovo: fuori dall’impresa

Tradizionalmente, il presidio dell’innovazione era affidato alle imprese che al loro interno ricercavano e sviluppavano il nuovo nei propri laboratori. Tale approccio rifletteva una concezione che vedeva al centro del processo di generazione dell’innovazione l’impresa. Infatti, nella teoria dell’impresa del premio Nobel all’economia Ronald Coase (1937), l’iniziativa di presidiare alcune attività economiche e spostarle dal dominio del mercato al proprio coordinamento e comando diretto, spetta all’imprenditore, che è il motore dell’emergere dell’innovazione.

Negli ultimi anni, gli studiosi hanno evidenziato una serie di eccezioni rispetto a questo paradigma che consistono in pratiche, ma anche forme organizzative, che hanno come motore una collettività. Questa può essere anche limitata all’interno dell’organizzazione, o più ampia fino a coincidere con “la folla”, nell’accezione intesa con il termine inglese crowd, quando coinvolge persone che si collocano indistintamente dentro e fuori l’organizzazione.

User innovation, open innovation, co-generation, co-production, crowdsourcing sono alcune di queste “eccezioni al paradigma” che, si sono largamente diffuse tra settori, tipologie e di organizzazioni, anche diversi, e che si presentano oggi come un fenomeno crescente.

Orientate alla generazione del nuovo, queste pratiche si rivolgono alla letteratura su creatività e innovazione, ma possono anche essere intese come strutture ibride della progettazione organizzativa, tra mercato e gerarchia (Foss, 2003) e reti (Powell et al, 1996), e quindi si rivolgono anche alla letteratura che si occupa delle forme e motivazioni dell’esistenza delle imprese.

Il concetto di sociality

Felin, Lakhani e Tushman (2017) hanno proposto una riflessione orientata alla costruzione di un nuovo paradigma che sappia spiegare tutti i fenomeni crowd e open e che si basa sul concetto di sociality.

La socialità o sociality identifica nel mondo animale la tendenza ad aggregarsi; nelle organizzazioni ogni sorta di “interazione sociale, aggregazione o variante di influenza sociale che si collega all’impresa, alla sua strategia o innovazione.” (p. 120).

L’idea di fondo è che la sociality costituisca un elemento fondativo delle organizzazioni, che può essere più o meno sviluppato, ma che risulta essere incisivo nella generazione del nuovo e nello sviluppo dell’innovazione. Questo per tre motivi, che riflettono le principali funzioni della sociality che:

  1. amplifica la razionalità,
  2. opera come sensore e segnalatore,
  3. favorisce la formazione di gruppi identitari.
  4. La sociality amplifica la razionalità

La semplificazione secondo la quale l’organizzazione è vista principalmente come decisore unico, ha contribuito a sottolineare il carattere limitato della razionalità delle organizzazioni come degli individui. Sono noti i bias e le distorsioni a cui è soggetto il decisore individuale e che lo fanno propendere per scelte inefficienti. Secondo Felin et al (2017), meno sviluppata è l’idea che le organizzazioni, accogliendo una collettività di soggetti, possano estendere la propria razionalità mettendo insieme quella dei singoli. Ogni individuo infatti ha un ambito di conoscenza, una serie di fonti informative, proprie idee e sviluppi che sono senza dubbio espressione di razionalità limitata. Tuttavia, più persone che presidiano aree eterogenee di conoscenza hanno fonti di informazioni e strategie di risoluzione dei problemi differenti, e presentano un insieme meno limitato rispetto a quello di un individuo preso singolarmente. Più eterogenee sono le persone incluse nel raggio d’azione dell’organizzazione, e più c’è possibilità di arricchimento poiché saranno distanti le aree presidiate dai singoli. Ecco perché il coinvolgimento oltre i confini organizzativi può portare un vantaggio: maggiore si presume essere la diversità non essendoci la comune appartenenza ad una organizzazione. Molte forme di generazione basate sul crowd sfruttano questa funzione; per esempio le piattaforme di crowdsourcing come Innocentive, dove le organizzazioni postano problemi che non riescono a risolvere internamente e li rivolgono a un crowd di scienziati.

La sociality è sensore del nuovo e segnalatore delle sue potenzialità

Questa funzione della sociality si allaccia al ruolo delle organizzazioni come processori di informazioni: scandagliano l’ambiente, segnalando situazioni critiche o spazi di opportunità. Di nuovo, questo ruolo viene tipicamente attribuito ad un unico attore, impersonato dal vertice strategico, che raccoglie le informazioni e, ancora una volta, decide come unicum. Anche se si riconosce che un flusso informativo molto importante proviene dal basso verso l’alto, ossia laddove l’informazione può essere raccolta direttamente presso i clienti o il mercato, di solito questa informazione viene nuovamente fatta convergere verso il vertice. Quando invece diventa supporto a decisioni che, in relazione a una forte decentralizzazione, vengono prese direttamente a livello di nucleo operativo, lì la sociality può fare la differenza. Il fatto di distribuire l’autonomia decisionale alla base dell’organizzazione non è di per sé una pratica nuova; nuova è invece l’idea che la decisione così decentralizzata, e affidata alla comunità composta da dipendenti, clienti, fornitori, ricercatori, sia maggiormente supportiva della generazione del nuovo e del suo sviluppo in innovazione.

Il caso di una impresa di ausili uditivi, Oticon, presenta un interessante esempio in cui i lavoratori operano in una struttura piatta, ed hanno la possibilità di auto-selezionare i progetti e i team con cui intendono lavorare (Foss 2003). Un altro caso è rappresentato dall’impresa di software, Valve, dove i lavoratori possono decidere autonomamente di spendersi per un progetto che ritengono promettente (inteso come potenzialmente capace di generare una gran parte del valore del futuro in questo settore) senza un mandato o una autorizzazione da parte di un superiore (Felin e Powell 2016). In entrambi questi casi il compito di scandagliare l’ambiente, vagliare e sviluppare possibilità volte a cogliere le opportunità nascenti o a costruire una visione di futuro sono affidate alla linea. Sfruttano la loro capacità di analisi dell’ambiente e la loro eterogeneità di competenze, focalizzazione, prospettive. Questo brulicare di progetti rappresenta per l’organizzazione un panorama di possibili vie di sviluppo future.

Nuovamente, l’elemento innovativo sta nel considerare la dinamica sociale come capace di selezionare e segnalare progetti effettivamente validi. La dimensione della sociality si esplica per esempio in Valve nella “regola del tre”. Secondo questa, quando tre individui manifestano l’intenzione di aderire a un progetto strategico, per esempio dedicato allo sviluppo di un nuovo prodotto, in modo automatico l’adesione di tre persone dà loro l’autorizzazione a svilupparlo. Questo meccanismo è giustificato dalla credenza che il processo sociale attraverso cui si propone un’idea agli altri, si reclutano altre persone per lavorare al progetto e si coinvolgono nella sua elaborazione e sviluppo, consenta di identificare progetti che per l’organizzazione vale la pena portare avanti.

La sociality aggrega in gruppi identitari

Molte pratiche di generazione del nuovo centrate sul crowd si innestano in comunità di individui che assomigliano a movimenti sociali, in cui ideologie e principi si fondono con il lavoro e l’attività economica. Si pensi al movimento per l’open source software, in cui l’aspetto monetario è largamente periferico tra le motivazioni. Ciononostante molte opportunità di business sono sorte in relazione a questo movimento e proprio la contrapposizione tra l’ideologia fondante il movimento e il suo sfruttamento economico, hanno avuto come effetto il radicamento di una precisa identità che proclama il software libero, e ha portato alla costituzione, in alternativa, di una identità che legge in questo un’opportunità di mercato. Queste identità contrapposte costituiscono per i singoli individui alternative tra cui scegliere di identificarsi con altri soggetti.

Queste identità aggreganti stanno diventando sempre più pervasive delle diverse aree della vita e sempre più importanti nel determinare il successo di un’impresa. La letteratura manageriale supporta modelli di impresa che tendono a includere e coinvolgere i diversi componenti interni ed esterni sotto una identità con lo scopo di sostenere l’identificazione con l’impresa e il maggior contributo dei lavoratori. Diverse identità di impresa sono destinate ad attrarre diversi soggetti alla ricerca di potersi identificare in contesti che li corrispondono. Esempi ne sono le imprese green, o quelle che vivono la sostenibilità in ogni suo aspetto.

Il processo di identificazione non riguarda solo le organizzazioni e i lavoratori, ma anche i consumatori e i clienti che diventano sempre più selettivi nelle proprie scelte di acquisto e nel manifestare la propria approvazione verso prodotti e aziende. Inoltre in caso di disapprovazione non si limitano a cercare la propria identificazione altrove, ma anche agiscono espressamente contro quelli con cui non si identificano (es. boicottandone i prodotti), meccanismo che di riflesso rinvigorisce la loro identità. Attraverso questa dinamica gli individui esprimono la propria voce, supportano l’azione collettiva e la realizzazione di prodotti e aziende innovative.

Le forme della sociality

La sociality assume forme diverse tra due poli opposti, quello della sociality, sottile (thin) o superficiale e della sociality densa (thick) o profonda. Nel primo caso, la dinamica e l’influenza sociale sono molto limitati sia dentro all’organizzazione che nel legame con il mercato, a favore di una visione atomistica dove i legami sociali restano latenti. Nel secondo caso, le organizzazioni sono caratterizzate da elevato capitale sociale, socializzazione e identità sociale sia all’interno dell’organizzazione che nel legame con il mercato.

Mentre la forma densa è già stata ampiamente studiata e si colloca quale fondamento per esempio del lavoro in team, la sociality sottile è stata tradizionalmente ritenuta una forma troppo debole per avere un effettivo impatto.

La sociality è sottile nel noto caso della “saggezza della folla” di Surowiecki (2004) secondo cui, avendo chiesto a tanti individui di esprimersi in merito ad una questione in modo autonomo e indipendente, la media delle loro risposte fornisce un’indicazione potente di scelta. Galton nel 1907 riporta un esperimento fatto a una fiera quando chiese agli avventori di indovinare il peso di un bue e osservò che la media delle risposte si discostava di solo una libbra dal dato corretto (Felin et al, 2017). In questo caso la sociality è minima perché l’aggregazione delle risposte degli individui avviene indipendentemente dalla loro effettiva interazione, attraverso la media delle singole risposte.

Eppure, già in questa minima forma, la sociality contribuisce a formare una buona base per la generazione del nuovo. Si pensi per esempio a come, durante un brainstorming, far lavorare in modo autonomo e indipendente i soggetti a produrre nuove idee conduca a un più vasto numero e a una maggior varietà di proposte, rispetto alla situazione in cui un gruppo fa un esercizio di brainstorming insieme.

Nel contesto del crowdsourcing, i concorsi di idee funzionano in modo simile stimolando cioè il materializzarsi di una distribuzione di possibili soluzioni a un problema (che prima della call non esiste), rispetto alle quali è possibile selezionare la soluzione estrema e più efficiente. La letteratura ha evidenziato che questa pratica può produrre migliori soluzioni di quelle prodotte da uno staff di selezionati esperti appartenenti a istituti di ricerca dedicati (Boudreau et al, 2011; Jeppesen e Lakhani, 2010; Lakhani et al, 2013).

Fallacia e robustezza della sociality

Felin et al (2017) propongono, attraverso il concetto di sociality, una nuova dimensione lungo la quale articolare una teoria delle diverse forme di generazione del nuovo che combinano openess e crowd. Se la proposta è senza dubbio interessante, è ancora acerba sotto diversi aspetti. Una teoria richiede di articolare quali forme di openess e quali caratteristiche del crowd si associano a quali situazioni e ne supportano soluzioni generative di nuovo con maggior potenziale. Su questo, alcuni contributi si sono aggiunti: Seidel et al (2017) hanno mostrato che diversi crowd che presentano diverse forme di sociality possono fornire un contributo potenzialmente differente nello sviluppo di una tecnologia, a seconda dello stadio di sviluppo in cui la tecnologia già si trova. Per esempio gli innovation contest o le pratiche di crowdsourcing sono più adatte in fasi in cui vi è discontinuità tecnologica e non sono ancora state identificate le tecnologie che competeranno per la dominanza. In queste situazioni la sociality è sottile ed è possibile massimizzare l’esplorazione e la scansione di più soluzioni coinvolgendo molti individui.

Nel considerare la sociality, tuttavia, viene automatico pensare a tutte quelle situazioni in cui la scelta del crowd si rivela sbagliata. Per esempio, nel quiz televisivo “Chi vuol esser milionario?”, tra gli aiuti a disposizione del concorrente per individuare la risposta esatta vi è il cosiddetto “aiuto del pubblico” ossia l’indicazione della risposta più selezionata dal pubblico presente. Spesso questa risposta non è corretta, e in particolare evidenzia che, quando non si conosce la risposta giusta, è diffuso, per esempio, cadere in un tranello, per cui si confondono concetti o intuitivamente si propende per una alternativa errata.

Come è possibile allora sostenere che la sociality ha un portato positivo all’innovazione, secondo le funzioni evidenziate da Felin et al (2017)? Quanto meno ne ha uno corrispondente negativo che va isolato e distinto sulla base di altre condizioni.

Expertise e problemi debolmente definiti

Tra gli altri, un nodo cardine è senza dubbio l’expertise.

Il ricorso al crowd in tema di generazione del nuovo e del suo sviluppo, si basa sull’evidenza che anche persone comuni, appartenenti a una folla indistinta, possono mostrare una competenza pari o addirittura superiore a quella di un esperto. L’aspetto dirompente di questo cambiamento di paradigma sta proprio nel ribaltare il ruolo dell’esperto che, da affidato all’impresa che si è specializzata in certi compiti e aree della conoscenza, viene assegnato al di fuori di essa ad un soggetto collettivo aspecifico non specializzato in quel compito o ambito. Così enunciato, questo principio suona un po’ come la rivincita degli ignoranti, e in effetti lo è, dopo però aver riflettuto su cosa si intende per competenza e per ignoranza.

Nel suo lavoro sulla novelty,Frigotto (2018) ha evidenziato che il ricorso al crowd ha come oggetto problemi che rappresentano fattispecie tra loro molto diverse. La differenza tra questi è articolata in termini di diverso livello di definizione del problema e di disponibilità della conoscenza che consente di elaborarlo e poi di risolverlo.

Si considerino questi problemi che sono stati postati sul sito di Innocentive, (Lopez-Vega et al, 2016):

  • Ideare una lavatrice che non utilizzi acqua.
  • Realizzare un deodorante senza alluminio.

Nel primo caso, la questione posta al crowd richiede di comprendere come formulare il problema in modo che sia risolvibile, ossia capire in quale area di conoscenza è possibile perseguire una risposta: è una questione chimica? ossia è attraverso un processo chimico che senza acqua si possono separare molecole di sporco dagli indumenti? è un problema di ingegneria dei materiali? Rispondere a queste domande consente di definire l’ambito di competenza richiesto per la risoluzione del problema. Con tali quesiti, le risposte che provengono dal crowd consentono di far emergere qual è la competenza necessaria e quindi l’expertise che consente di risolvere quel problema. Prima di questa analisi, il crowd, come insieme di competenze indistinte e latenti, costituisce l’insieme dei “non esperti” o “ignoranti”, poiché ignorata è la conoscenza richiesta alla risoluzione del problema.

Diverso è il secondo caso, molto più circostanziato e molto più semplice è proporre una risposta per esperti in materia; il crowd qui propone risposte che l’impresa può poi ordinare per efficacia.

Il caso invece sopra riportato della stima del peso del bue di Galton non può prescindere dal fatto che alla fiera di Plymouth del 1907 partecipavano persone che, per la vita del tempo, non erano del tutto digiune della vicinanza con il bestiame e pertanto possedevano un buon livello di conoscenze riguardo la corporatura e il peso dei buoi: non si può dire che non fossero esperti. Nel caso invece dell’aiuto dal pubblico de “Chi vuol esser milionario”, viene proposto un problema la cui soluzione è ignota al crowd, che non ha conoscenza specifica in merito, anche se una soluzione è già stata sviluppata ed è disponibile ad esperti identificabili ex-ante. In questo caso il ricorso al crowd non è giustificato da una particolare competenza che può essere assunta nel pubblico (come invece per gli avventori della fiera del 1907) e nemmeno dalla necessità di esplorare risposte provenienti da ambiti diversi per strutturare il problema stesso. La risposta del pubblico infatti qualche volta aiuta e qualche volta invece porta fuori strada. Non si riscontra un particolare beneficio nel far ricorso al crowd in questa situazione.

In estrema sintesi, quando il problema postato è “ben definito” (Simon, 1973), allora il crowd fornisce soluzioni che si collocano lungo una distribuzione altrimenti sconosciuta, Quando il problema postato è “mal definito”, il crowd consente di esplorare quali formulazioni del problema conducono a soluzione, e poi se ne può valutare l’efficacia. Problemi che sono ben definiti e che hanno soluzioni conosciute, ossia dove non è necessaria nessuna forma di esplorazione dell’ignoto, allora sono meglio risolti al di fuori del crowd.

Questa articolazione consente di specificare quando la sociality è più o meno promettente nella generazione del nuovo. In questo solco, il futuro della ricerca sulle pratiche open e crowd-based consisterà nell’articolare le diverse forme della sociality in relazione problemi più o meno definiti e alla possibilità di identificazione dell’expertise, per comprenderne l’efficacia.

Conclusioni

Le nuove pratiche di generazione del nuovo open e crowd-based fanno leva sul fatto che elaborare una soluzione mobilitando un insieme di risolutori (sociality), porti molti vantaggi, ma questi non sempre si manifestano. Il ricorso al crowd rivela il proprio potenziale maggiore quando riguarda problemi poco definiti, ossia dove si coinvolge una crowd senza conoscere l’expertise di chi potrebbe fornire la soluzione migliore. Invece, mano a mano che il problema diventa più definito è possibile andare alla ricerca di esperti esterni o interni e affidare loro la generazione di un nuovo che è anche più circoscritto e specifico. Per le organizzazioni questo suggerisce di distinguere i problemi tra ben definiti e mal definiti e di destinarli rispettivamente al crowd indistinto o al più alto esperto della conoscenza utile per elaborare una soluzione.

Bibliografia

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