L’articolo illustra i meccanismi attraverso i quali gli spazi collaborativi forniscono un ambiente di riferimento surrogato per i lavoratori digitali, supportandone identità, visibilità e legittimazione professionale. I tre meccanismi principali emersi dallo studio sono: il networking con i co-worker, l’identificazione con lo spazio e l’appropriazione dello spazio.
Introduzione
L’attuale emergenza sanitaria sembra aver ulteriormente accelerato gli effetti che la digitalizzazione ha avuto sul modo di lavorare negli ultimi anni. Dal momento che negli ultimi mesi si è reso impossibile per la maggior parte dei lavoratori recarsi fisicamente nel proprio abituale luogo di lavoro, aziende e individui hanno scoperto quello che già molti lavoratori avevano sperimentato: la possibilità di lavorare in luoghi diversi da quelli più tradizionali. Le recenti innovazioni tecnologiche avevano infatti già indotto le aziende a promuovere l’adozione di forme di remote working. Il lavoro a distanza offre vantaggi sia alle aziende sia ai lavoratori. Nel primo caso, si verificherebbe una maggiore responsabilizzazione sui risultati da parte dei lavoratori e si creerebbe un ambiente di lavoro più flessibile e collaborativo. Per i lavoratori, i principali vantaggi sarebbero da rintracciare nella possibilità di organizzare il proprio tempo di lavoro in maniera autonoma, in un migliore bilanciamento vita-lavoro e nella riduzione dei tempi e costi della mobilità verso la sede di lavoro.
Parallelamente all’affermazione del remote working, i cambiamenti nel contesto socio-economico e a livello tecnologico hanno contribuito anche a un significativo incremento delle persone che lavorano in modo autonomo e/o che sono solo temporaneamente affiliate ad aziende. I diversi tipi di lavoratori autonomi (partite iva, liberi professionisti, imprenditori, ecc.) rappresentano quasi un terzo della forza lavoro nelle economie occidentali più avanzate (Bureau of Labor Statistics, 2016; Eurofound & ILO, 2017). Anche in questo caso, poiché molto spesso svolgono lavori o professioni che si avvalgono di tecnologie digitali, le persone frequentemente non lavorano da un tradizionale ufficio aziendale o studio professionale, che può comportare costi anche elevati per il suo mantenimento, ma optano per soluzioni rappresentate dalla propria abitazione (che viene adibita anche a luogo di lavoro), da caffè, biblioteche o altri luoghi, tra i quali i cosiddetti “spazi collaborativi”.
Gli spazi collaborativi e il loro ruolo nel supportare i lavoratori digitali
Con il termine spazi collaborativi si fa riferimento a un insieme variegato di luoghi (co-working, incubatori, fab-lab, ecc.) che hanno in comune il fatto di ospitare un insieme eterogeneo di lavoratori diversi per background formativo, attività svolta e settore di competenza. Definiti anche “luoghi terzi”, rappresentano un fenomeno che ha avuto una grande espansione negli ultimi anni. In linea con i recenti trend mondiali che indicano un aumento costante degli spazi di co-working (Spreitzer, Garrett, Bacevice, 2015) – ormai quasi 19.000 con oltre un milione e mezzo di membri world-wide (fonte Deskmag) – negli ultimi anni si è assistito anche in Europa (Capdevila, 2015) e nel nostro Paese a una crescita degli spazi collaborativi (secondo italiancoworking in Italia nel 2018 vi erano circa 500 spazi di coworking e nel 2019 circa 700).
I motivi della loro proliferazione sono vari. Innanzitutto, gli spazi collaborativi offrono a prezzi accessibili una serie di risorse e servizi (postazioni di lavoro, Wi-Fi, sale riunioni, attività di formazione e consulenza, ecc.) a costi che altrimenti i lavoratori autonomi (soprattutto quelli nelle prime fasi della carriera), da soli, farebbero fatica a sostenere. In secondo luogo, si propongono come un ambiento di lavoro vario e stimolante che può offrire la possibilità di incontrare altri professionisti del proprio settore o operanti in contesti molto diversi. Da questo punto di vista, oltre a offrire importanti vantaggi in termini di processi di condivisione delle idee e di contaminazione, e quindi anche di potenziali opportunità di collaborazione, questi spazi possono avere importanti conseguenze anche sulla costruzione dell’identità professionale dei lavoratori che li frequentano.
Su quest’ultimo aspetto si sono interrogati Petriglieri, Ashford e Wrzesniewski (2018), i quali hanno cercato di comprendere come la gig economy stia cambiando l’esperienza di lavoro e l’identità professionale proprio dei lavoratori indipendenti, in particolare di quei lavoratori che non appartengono formalmente a un’organizzazione e/o che svolgono autonomamente un’attività lavorativa non riconosciuta come professione tradizionale. La ricerca di Petriglieri e colleghi si basa su interviste semi-strutturate a 65 lavoratori indipendenti tra i quali artisti, scrittori, designer, consulenti, specialisti IT, produttori cinematografici ed editori, tutti lavori autonomi basati su alti livelli di conoscenza e creatività. Secondo lo studio, in assenza di un ambiente organizzativo di riferimento (holding environment), tradizionalmente garantito dall’azienda per la quale si lavora, i lavoratori indipendenti hanno bisogno di trovare un nuovo modo per definire la propria identità professionale. A tal fine, essi coltivano autonomamente un proprio ambiente professionale di riferimento (personal holding environment), strutturando routine, definendo gli spazi fisici di lavoro, sviluppando relazioni rilevanti e fissando un motivante obiettivo professionale di medio-lungo periodo. Questi elementi, infatti, permettono di sostenere la propria produttività e gestire le emozioni, messe a dura prova dall’incertezza e dalla precarietà del lavoro svolto. In particolare, l’assenza di un ambiente organizzativo di riferimento e di un’affiliazione aziendale fa sì che l’identità professionale sia definita dal lavoro svolto e, dunque, essere (o meno) produttivi sul lavoro è fondamentale per sostenerla ed evitare tensioni emotive.
Nello specifico, rimanere ancorati a routine quotidiane consente di rimanere produttivi e ridurre le distrazioni dal lavoro, fornendo confini e maggiore disciplina nella definizione dei tempi di lavoro, ma anche maggiore motivazione per completare i task, riducendo in questo modo lo stress emotivo associato alla mancanza di produttività. In modo analogo, anche avere uno spazio fisico destinato al lavoro contribuisce a definire la propria identità professionale, proteggendola dalle distrazioni e dal conseguente stress emotivo provocato dalla scarsa produttività. La presenza di uno spazio dedicato al lavoro, anche se limitato, fa sentire liberi di poter esprimere la propria identità professionale all’interno di quei confini definiti.
Anche sviluppare relazioni significative, sia con altri professionisti e lavoratori che condividono la loro stessa condizione lavorativa, sia con amici, parenti e partner, è un elemento che infonde sicurezza e incoraggiamento ai lavoratori indipendenti. In particolare, anche se essi non hanno tutti un gruppo stabile di pari con cui si confrontano, mantenere i contatti con alcune persone, non necessariamente per motivi professionali, è considerato elemento cruciale per mantenere la produttività e l’equilibrio emotivo e di conseguenza supporta l’identità professionale.
Infine, i partecipanti allo studio hanno sottolineato come un elemento cruciale per un lavoratore indipendente fosse tenere alta la propria motivazione professionale. in tal senso, gioca un ruolo importante avere un obiettivo professionale di medio-lungo periodo che possa orientare le scelte professionali superando anche le piccole sfide quotidiane ed evitando così lo stress emotivo che riduce, anche in questo caso, la loro produttività. Trovare uno scopo e una motivazione forte li aiuta di conseguenza ad avere un’identità professionale sostanzialmente appagata.
Per descrivere il processo con cui i lavoratori contemporanei creano connessioni tra gli elementi citati (routine, spazi fisici, pari e motivazione professionale), Petriglieri e colleghi utilizzano la metafora del “farsi spazio”. Ma come è possibile “farsi spazio” per i lavoratori autonomi che difficilmente dispongono di uno spazio lavorativo fisico di riferimento? Sono sufficienti gli spazi digitali a loro accessibili, per definizione, anytime, from anywhere?
In realtà, gli spazi collaborativi a cui si è accennato all’inizio dell’articolo possono svolgere una funzione importante nel supportare i lavoratori indipendenti nella costruzione di un loro personale holding environment. Secondo la sociologa urbana Janet Merkel (2019), infatti, i co-working possono essere interpretati come una pratica informale di auto-organizzazione e supporto dei lavoratori indipendenti, specialmente delle industrie creative e culturali. Tali spazi, infatti, consentono a questi lavoratori autonomi di avere sia maggiore visibilità e legittimazione professionale nel mercato del lavoro, sia una rete professionale che li aiuti a navigare nell’informalità del lavoro creativo. Lavorare in uno spazio collaborativo è infatti una strategia professionale che molti lavoratori indipendenti perseguono per ridurre i rischi e le incertezze legati al lavoro indipendente, per avere accesso a competenze complementari alle proprie e trovare una comunità professionale di riferimento che riconosca, supporti e legittimi la propria identità professionale.
Il nostro studio sul campo
Nel nostro articolo “Do digital workers dream of digital workplaces? The importance of physical shared spaces” (Leone, Scapolan, Montanari, 2020) abbiamo indagato quali sono i meccanismi attraverso cui uno spazio collaborativo può fornire un ambiente di riferimento surrogato (surrogate holding environment) ai lavoratori digitali, soprattutto dei settori creativi e culturali, supportandone identità, visibilità e legittimazione professionale. Per rispondere a questa domanda abbiamo studiato il caso di BASE, uno spazio collaborativo nato nel 2016 a Milano, con l’obiettivo di creare una contaminazione tra diversi campi culturali e creativi e promuovere Milano come centro creativo in grado di generare connessioni tra mondi molto diversi quali le arti, la tecnologia e l’innovazione sociale. Lo spazio è gestito da un’organizzazione non profit fondata da cinque aziende e un’associazione e vi lavorano 32 persone tra manager, dipendenti e collaboratori. BASE rappresenta uno dei casi più rilevanti di rigenerazione urbana effettuati in Italia, occupando 12.000 metri quadri nell’ex area industriale dell’Ansaldo di Milano.
Lo spazio condiviso è stato pensato in maniera polifunzionale con aree dedicate a diverse attività, dai laboratori alle aree espositive, dalla residenza per artisti a un bar e ristorante, fino al co-working (Burò) che può ospitare fino a 120 persone. Negli anni BASE è diventato un punto di riferimento a Milano per giovani professionisti provenienti dai settori creativi e culturali ed è diventato uno dei luoghi di eccellenza delle start up tecnologiche e creative per collocare la propria sede.
Abbiamo condotto il nostro caso studio utilizzando sia dati qualitativi sia quantitativi e la raccolta dati è avvenuta da dicembre 2018 ai primi mesi del 2019. In particolare, abbiamo condotto 28 interviste semi-strutturate sia ai manager e ai dipendenti di BASE, sia ai co-worker dello spazio. Le interviste sono state analizzate secondo una metodologia interpretativa (Gioia, Corley & Hamilton, 2013). In aggiunta, al fine di ottenere un quadro più ampio dei frequentatori dello spazio abbiamo somministrato un questionario, raccogliendo 75 risposte (pari all’85% del totale dei co-worker del Burò), volto ad indagare le caratteristiche biografiche e professionali dei rispondenti e il loro rapporto con lo spazio. In particolare, attraverso i dati raccolti con il questionario sappiamo che BASE ospita per lo più giovani professionisti (età media 35 anni), equamente divisi in lavoratori indipendenti (sia freelance sia imprenditori), lavoratori dipendenti in regime di smart working e dipendenti di aziende che hanno la propria sede a BASE. Lo spazio ospita professionisti che vengono principalmente da industrie digitali e creative e che svolgono professioni nei seguenti ambiti: digital manufacturing, big data, augmented and virtual reality, coding, web development, internet of things e artificial intelligence, web design e digital PR.
Per quanto riguarda l’analisi delle interviste, queste hanno rivelato che i co-worker di BASE hanno sviluppato un ambiente di riferimento surrogato (surrogate holding environment) grazie allo spazio collaborativo, attraverso tre meccanismi principali:
- il networking con i co-worker;
- l’identificazione con lo spazio;
- l’appropriazione dello spazio.
Il primo meccanismo riguarda le attività di costruzione di relazioni con gli altri co-worker nello spazio collaborativo al fine di ridurre il senso di isolamento che i professionisti indipendenti possono avere in mancanza di un contesto organizzativo strutturato. L’uso dello spazio per vincere il senso di isolamento è un elemento molto ricorrente nelle interviste ai co-worker. Nonostante la possibilità che molti hanno di lavorare facilmente da casa, sia i lavoratori indipendenti sia quelli dipendenti in regime di remote working hanno spesso raccontato di preferire la scelta di uno spazio dedicato al proprio lavoro, diverso dall’abitazione, per evitare distrazioni, ma soprattutto per combattere la sensazione di isolamento durante l’orario di lavoro. L’attività di networking per i nostri intervistati è fortemente legata all’idea di riempire il vuoto sociale che tipicamente si crea con un lavoro indipendente. Questo desiderio si manifesta direttamente anche nella partecipazione alla community professionale che si sviluppa nello spazio collaborativo e che si basa sulla condivisione degli stessi valori. Allo stesso modo, l’attività di networking con i co-worker è anche mirata a condividere conoscenza e competenze per realizzare eventuali collaborazioni di tipo più o meno strutturato, dalla richiesta di aiuto per risolvere un problema comune nello spazio, all’opportunità di creare una partnership per un progetto lavorativo.
Il secondo meccanismo riguarda le pratiche che gli individui mettono in campo per favorire un allineamento della propria identità con quella dello spazio collaborativo. Questo meccanismo si basa sulla condivisione e sull’accettazione dei valori e della cultura dello spazio. Molti co-workers condividono le stesse passioni e valori e spesso queste passioni rientrano in qualche modo nella vita lavorativa dei professionisti che abbiamo incontrato. La sovrapposizione di fatto dell’ambito professionale e personale facilita lo sviluppo del senso di appartenenza e rappresenta anche uno strumento di (auto)selezione per i futuri co-worker. I nostri dati infatti raccontano che le persone che fanno domanda per una postazione a BASE lo fanno perché conoscevano già lo spazio, il suo stile, i suoi valori e le attività collaterali. In questo senso, le caratteristiche dello spazio fisico risultano centrali: il layout e la sua architettura contribuiscono infatti in maniera unica a definire l’ambiente di lavoro e aiutano anche a sostenere l’identificazione. Molti intervistati hanno anche raccontato di come sentirsi membri di uno spazio fisico supporti un maggiore riconoscimento professionale da parte di persone esterne al co-working. In realtà però questo meccanismo ha rivelato talvolta anche un elemento di criticità. Sebbene infatti l’identità di BASE sia strettamente collegata alle industrie creative e culturali, non tutti gli intervistatisi sentono completamente allineati con i valori e la cultura dello spazio, in particolare con la sua apertura verso l’esterno. Alcuni hanno riferito infatti come l’eccessiva fluidità dei confini dello spazio, che consente ad esempio la presenza di visitatori occasionali per visitare mostre, eventi o accedere al ristorante, rappresenti una sorta di invasione del proprio spazio di lavoro. Di conseguenza, sentono che la propria identità professionale e la propria reputazione, che sono direttamente collegate al riconoscimento di BASE come spazio lavorativo, possano essere compromesse da questa fluidità.
Il terzo meccanismo riguarda il modo in cui le persone vivono e si appropriano dello spazio collaborativo. Questo può avvenire definendo routine consolidate per scandire i tempi nello spazio e dare una struttura alla giornata di lavoro. Nello spazio collaborativo spesso queste routine sono condivise con la community come, ad esempio, nel caso del pranzo o della partecipazione agli eventi culturali e sociali di BASE. Vivere e appropriarsi dello spazio significa anche poterlo adattare alle proprie esigenze, condividerlo con altri. Questo per gli intervistati si è tradotto nella costituzione di “micro-quartieri”, piccole comunità localizzate nello spazio fisico condiviso, dove le persone hanno definito comunemente i limiti di lavoro, sia spaziali sia temporali. Proprio come in un ufficio tradizionale le persone cercano di adattare lo spazio e di personalizzarlo sia per rispondere alle proprie necessità professionali (ad esempio, bisogno di maggiore privacy e concentrazione) sia per avere uno spazio che rappresenti gli interessi personali. Non sempre però è possibile per un co-worker appropriarsi e definire il proprio spazio di lavoro come si desidera. Ad esempio, sebbene gli intervistati ci abbiano raccontato di aver scelto di lavorare in uno spazio collaborativo proprio per combattere l’isolamento sociale, molti di loro di contro hanno anche spesso la necessità di isolarsi, per trovare la giusta concentrazione. Anche in questo caso, se da un lato la presenza di molte attività aperte al pubblico esterno è un elemento percepito quasi come una distrazione dal lavoro, dall’altro viene vissuto da molti come uno dei principali elementi che garantisce loro di vivere l’esperienza dello spazio in modo completo.
Alcune riflessioni finali
In definitiva, il nostro studio, basato su uno spazio collaborativo vissuto da lavoratori digitali, mostra come questo tipo di lavoratori ricerchi e sviluppi un proprio ambiente di riferimento surrogato, proprio attraverso l’affiliazione agli spazi collaborativi, nonostante la digitalizzazione permetterebbe loro di lavorare virtualmente senza limiti di tempo e di spazio. In mancanza di un ambiente organizzativo formale, gli spazi condivisi permettono ai lavoratori digitali, non solo di migliorare la propria condizione di flessibilità e mobilità (perseguendone cioè i vantaggi e contemporaneamente attenuandone le criticità), ma anche di definire meglio la loro identità professionale e costruire proprie routine in un contesto spaziale e fisico definito. I nostri risultati raccontano che i lavoratori digitali attivano tre meccanismi principali per sviluppare il proprio ambiente di riferimento surrogato all’interno di spazi di lavoro condivisi: il networking con i co-worker, l’identificazione con lo spazio e l’appropriazione dello spazio.
Il fenomeno degli spazi collaborativi è in continua crescita perché incontra le necessità crescenti dei lavoratori indipendenti e digitali e i nostri risultati confermano l’idea che i lavoratori hanno bisogno di uno spazio fisico e tangibile per lavorare. Anche quando infatti la tecnologia e il tipo di lavoro permettono di lavorare ovunque e senza orari prestabiliti, i lavoratori digitali cercano e costruiscono uno spazio di riferimento dove poter costruire un ambiente sociale – attraverso l’interazione con i colleghi – sviluppare un ambiente cognitivo – mediante l’identificazione con lo spazio – e disegnare un ambiente fisico – adattando in funzione dell’uso e personalizzando lo spazio collaborativo.
I risultati della nostra ricerca offrono anche delle implicazioni manageriali; in particolare mostrano quanto sia rilevante per gli spazi collaborativi avere dei valori e un’identità chiari, da veicolare all’esterno, in modo da attirare un pubblico coerente e creare una community radicata che si identifichi con lo spazio e ne supporti lo sviluppo professionale. In questo senso risulta centrale il ruolo del community manager per mantenere viva la comunità e facilitare il networking. Se infatti sempre più spazi adottano strumenti digitali per favorire l’incontro tra le competenze presenti nello spazio, le persone sono ancora l’elemento chiave per rendere possibile la costruzione della relazione. Inoltre, creare occasioni di networking ma anche dare la possibilità in qualche modo di personalizzare lo spazio di lavoro consente ai frequentatori di vivere lo spazio e di sentirlo proprio.
Il nostro studio è stato condotto quasi un anno prima rispetto all’emergenza Covid-19, quindi è lecito domandarsi come le dinamiche evidenziate in questo spazio possano essere state influenzate dall’emergenza sanitaria e dal lockdown. Negli ultimi mesi abbiamo tutti sperimentato cosa voglia dire remote working e il passaggio, non più progressivo, ma improvviso, al lavoro digitale. In maniera forzata le imprese e le persone si sono trovate a implementare soluzioni di lavoro a distanza e questo ci porta a chiedere quali siano le sfide per gli spazi collaborativi in un futuro prossimo. Gli spazi collaborativi in questa “fase 2” di ripresa post Covid-19 potranno rappresentare una soluzione flessibile per le imprese per diversi motivi: in primo luogo consentono in caso di necessità un ampliamento degli spazi, senza impegnare la sede aziendale e contenendo i costi, rispetto a soluzioni più onerose e complesse; in secondo luogo sono luoghi pensati per la condivisione e gestiti con molta attenzione alla sicurezza, al benessere e alla salute dei professionisti che ospitano; sono luoghi più adatti al lavoro in remoto rispetto all’abitazione, dati i servizi e le risorse disponibili e quindi risultano più funzionali per un’azienda che scelga soluzioni di remote working per i propri dipendenti, che magari vivono a molti chilometri di distanza dalla sede aziendale. Infine, non dimentichiamo che gli spazi collaborativi sono nati per ospitare lavoratori indipendenti e accoglieranno nell’immediato futuro molti lavoratori che a causa della crisi post pandemia avranno bisogno di una comunità professionale di riferimento che li accolga e li supporti in una fase di rilancio della propria carriera.
Bibliografia
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