Ripensando ora alla Tavola Rotonda Impacts of digital technologies within and beyond the workplace, che si è tenuta lo scorso 7 febbraio durante l’ultima giornata del Workshop di Organizzazione Aziendale, viene subito in mente come in questi otto mesi ci sia stata un’accelerazione dei processi di trasformazione digitale che era difficilmente immaginabile quella mattina. Come nel film Interstellar di Cristopher Nolan quando il protagonista rincontra la figlia al termine della missione, ci ritroviamo oggigiorno a riflettere sul tema con la sensazione che siano passati anni e non mesi. Se durante l’incontro uno dei punti su cui tutti i panelist erano d’accordo riguardava la difficoltà di portare avanti i processi di trasformazione digitale a causa delle resistenze culturali presenti nelle organizzazioni, oggi non possiamo non partire dalla costatazione che la realtà è profondamente mutata. Soprattutto nel caso del lavoro da remoto (o smart working come viene comunemente chiamato nella pratica quotidiana), durante la tavola rotonda era emerso come la logica organizzativa dominante fosse contraddistinta dalla necessità di controllare i propri dipendenti e dallo scetticissimo verso la produttività del lavorare da casa. Tutti fattori che facevano pensare che il lavoro da remoto fosse una pratica applicabile solo in pochi contesti.
L’emergenza legata al Covid19 ha invece accelerato questo percorso: già un mese dopo quell’incontro, infatti, stavamo sperimentando di fatto il lavoro da remoto. Alcuni risultati di una recente analisi dell’Istat[1] rendono chiaro questo passaggio inaspettato e repentino. Se nei mesi precedenti la crisi (gennaio e febbraio 2020) solo l’1,2% della forza lavoro complessiva era impiegato in forme di lavoro a distanza, tra marzo e aprile si è passati a una quota pari all’8,8%. Naturalmente non tutti i settori sono stati ugualmente interessati da questo passaggio e le incidenze maggiori (con punte anche intorno al 50%) si sono registrate nei settori dei servizi, soprattutto quelli dell’informazione e comunicazione, delle attività professionali, scientifiche e tecniche, e dell’istruzione. Sempre secondo quanto riportato dall’Istat, anche dopo la fine del lockdown la quota di lavoratori impiegati a distanza è rimasta significativa, soprattutto nelle grandi e medie imprese (con un valore medio del 20%).
Se oggi è ancora aperto il dibattito su quanto questo fenomeno sia da considerarsi un cambiamento temporaneo oppure strutturale del modo di lavorare, è ormai diffusa la sensazione che quanto sperimentato nei mesi scorsi in una quota significativa delle imprese italiane non potrà non lasciare effetti sulle soluzioni organizzative adottate nel futuro prossimo (anche semplicemente in vista del rischio della seconda ondata del Covid19). I risultati di una ricerca commissionata da Manageritalia[2] confermano queste considerazioni. Dallo studio condotto su un campione di oltre 1.000 manager emerge infatti la volontà (condivisa dal 79% degli intervistati) di puntare su forme di smart working anche per il futuro, nell’idea che ciò possa portare benefici sia ai lavoratori sia alla produttività aziendale.
Dal punto di vista delle aziende diventa di primario interesse, dunque, implementare le opportune soluzioni informatiche e organizzative per estendere queste nuove forme lavorative a quote maggiori di personale. In particolare, diventa importante agire sul rinnovamento degli spazi organizzativi, degli stili manageriali e delle politiche di gestione delle risorse umane. Aldilà delle singole soluzioni che possono essere applicate, occorre attuare un profondo cambiamento culturale che riguarda l’organizzazione dei tempi, degli spazi e delle logiche di lavoro. In particolare, si può essere d’accordo con quanto affermato dalla collega Barbara Imperatori[3] che il lavoro dovrebbe passare da “un luogo dove si va” a “qualcosa che si fa” attraverso un processo di maggiore delega e un ripensamento dei momenti in cui viene richiesta la co-presenza fisica.
Dal punto di vista dei lavoratori, invece, è importante cercare di comprenderne i bisogni che possono essere anche molto diversi tra loro in funzione del ciclo di vita professionale e delle singole situazioni familiari. Da questo punto di vista, i mesi trascorsi in remote working hanno portato le persone a ripensare al proprio lavoro anche entro un disegno più ampio di vita, cogliendo le opportunità potenzialmente offerte da questo nuovo modo di lavorare. Se naturalmente i benefici in termini di flessibilità e conciliazione vita-lavoro possono essere numerosi, non bisogna trascurare il fatto che il lavorare dalla propria abitazione può portare anche alcune problematiche come, ad esempio, il senso di isolamento e la difficile separazione tra spazi per la famiglia e quelli per il lavoro.
Queste difficoltà sono in linea con i motivi per cui prima dell’emergenza Covid19 un numero crescente di lavoratori preferisse sperimentare le possibilità offerte dai cosiddetti spazi collaborativi. Con questo termine si fa riferimento a un insieme ampio e variegato di luoghi di lavoro (coworking, incubatori, fab-lab, ecc.) che ospitano lavoratori molto eterogenei tra loro dal punto di vista sia del background formativo, sia dell’attività svolta (Montanari, Mattarelli e Scapolan, 2020). Gli spazi collaborativi hanno avuto una grande espansione negli ultimi anni per una serie di fattori, tra cui quello di offrire a diverse categorie di lavoratori la possibilità di lavorare in un luogo diverso dalla propria abitazione e dal tradizionale ufficio, con benefici non solo in termini di minori costi di gestione ma anche di sperimentazione di un ambiente vario e stimolante[4]. Da questo punto di vista, gli spazi collaborativi svolgono un importante ruolo di intermediazione relazionale in quanto offrono la possibilità di incontrare altri professionisti (del proprio settore, ma anche di altri contesti), favorendo i processi di condivisione delle idee e di ibridazione delle conoscenze (e.g., Garrett et al., 2015; Merkel, 2019).
Se gli spazi collaborativi rappresentano un tratto saliente di molte città italiane prima della crisi, è lecito interrogarsi su quale sarà il futuro di questi spazi che fanno della socialità una delle loro caratteristiche fondanti. In una fase storica contraddistinta dal distanziamento sociale diventa difficile pensare che questi luoghi possano continuare ad avere il ruolo aggregante che avevano pre-crisi, con potenziali conseguenze negative per i lavoratori da remoto (e non) che li utilizzavano.
I risultati di una recente ricerca che abbiamo condotto sul caso degli spazi collaborativi dell’Emilia-Romagna mostrano però evidenze che vanno nella direzione opposta[5]. Questi luoghi, infatti, hanno dato dimostrazione di un elevato grado di resilienza e di capacità di adattamento alle mutate condizioni contestuali. Dalle analisi condotte, è risultato che solo uno dei 151 spazi operativi prima del lockdown ha chiuso la propria attività. Gli altri spazi sono invece tuttora operativi. L’elemento più interessante è che i soggetti gestori intervistati hanno dichiarato di aver colto la crisi pandemica che ha bloccato le operazioni in presenza durante il lockdown come l’occasione per ripensare le proprie attività, cercando di ovviare al periodo di elevata difficoltà. Tra le diverse iniziative portate avanti, vale la pena soffermarsi sul potenziamento dell’attività online. Tutti gli spazi monitorati, infatti, hanno cercato di sviluppare diverse iniziative con l’obiettivo di mantenere attiva la loro community e di promuovere lo spazio a potenziali futuri clienti e fruitori. A titolo esemplificativo, possiamo citare il caso di Impact Hub Reggio Emilia che ha organizzato per la sua comunità di “hubbers” un ritrovo virtuale giornaliero (per una pausa caffè da remoto) oppure quello dei Laboratori Aperti gestiti dalla Fondazione Brodolini che hanno riformulato le proprie attività in veste virtuale attraverso l’organizzazione di podcast, dirette social, laboratori e videoconferenze per diversi target di fruitori.
Dalle interviste è emerso come, anche una volta riprese le attività in presenza (naturalmente con i dovuti accorgimenti previsti dalla legge che in alcuni casi hanno portato a un ripensamento degli spazi), la maggior parte dei soggetti gestori è intenzionata a mantenere e potenziare le attività digitali. In tal senso, oltre a continuare le attività avviate durante il lockdown stanno anche prevedendo modalità di smart working per i propri collaboratori. Quella che sembra emergere, dunque, è una nuova foma blended di spazio collaborativo, dove fisico e virtuale tendono a convivere e, nei casi più virtuosi, anche a rafforzarsi reciprocamente. Infatti è emerso come la possibilità di realizzare attività online abbia moltiplicato le opportunità rendendo possibili iniziative che per costi o difficoltà logistiche non sarebbero potute essere realizzate. Ad esempio, grazie al digitale è stato possibile raggiungere pubblici o potenziali partner di altre zone geografiche che altrimenti non sarebbero mai entrati in contatto. Allo stesso modo, però, i gestori sono consapevoli di dover rafforzare il radicamento dei propri spazi nel territorio di riferimento e, in tal senso, gli eventi in presenza sono molto importanti. Tuttavia, l’esperienza vissuta che anche l’online può funzionare sembra aver ridotto la necessità di dover organizzare un numero elevati di eventi, spingendo i gestori a ripensarli in maniera più autentica e definendo più chiaramente quali sono quelli che richiedono la presenza.
Gli spazi collaborativi, dunque, escono da questa crisi in qualche modo rafforzati, perché oltre a essere riusciti a sfruttare le opportunità offerte dal digitale per mantenere le relazioni con la propria comunity, si stanno attrezzando per ospitare una quota maggiore di lavoratori dipendenti che svolgono il proprio lavoro in remote working. Lo stesso utilizzo degli strumenti digitali può dimostrarsi efficace nel sostenere il senso di comunità e socializzazione di cui spesso hanno bisogno anche i remote workers. Naturalmente, l’online non potrà sostituire l’empatia e la socializzazione derivante dalle interazioni fisiche, ma in un periodo in cui il distanziamento sociale sembra limitare l’uso serendipico dei legami, il digitale può offrire alcune occasioni per risolvere questo problema. Naturalmente, lo strumento tecnologico di per sé non offre mai la soluzione; al contrario, occorre un’adeguata capacità organizzativa (in questo caso da parte dei gestori degli spazi collaborativi) per pianificare attività che sappiano stimolare processi sociali e identitari, affrontando con coraggio e innovazione le sfide che ci attendono nei prossimi mesi.
Bibliografia
Garrett, L. E., Spreitzer, G. M., & Bacevice, P. A. (2017). Co-constructing a sense of community at work: The emergence of community in coworking spaces. Organization Studies, 38(6), 821–842.
Merkel, J. (2019). ‘Freelance isn’t free.’ Co-working as a critical urban practice to cope with informality in creative labour markets. Urban Studies, 56(3), 526-547.
Montanari, F., Mattarelli, E. & Scapolan, A. (2020). Collaborative Spaces at Work. Innovation, Creativity and Relations. Routledge.
Scapolan, A., Montanari, F., Leone, L., Razzoli, D., Rinaldini, M., & Rodighiero, S. (2020). Gli spazi di lavoro negli hub creativi: una ricerca esplorativa. Sviluppo & Organizzazione, Gennaio/Febbraio: 26-37.
[1] https://d110erj175o600.cloudfront.net/wp-content/uploads/2020/06/Imprese-durante-Covid-19.pdf
[2] https://www.manageritalia.it/content/download/Societa/manageritalia-indagine-coronavirus-sintesi-9-marzo-2020.pdf
[3] https://www.ilsole24ore.com/art/si-fa-presto-dire-smart-e-tema-riorganizzazione-lavoro-ADZCYaQ?refresh_ce=1
[4] Per un approfondimento si rimanda all’articolo scritto insieme alle colleghe Ludovica Leone e Anna Chiara Scapolan e pubblicato in questo special issue di Prospettive in Organizzazione.
[5] https://www.che-fare.com/spazi-collaborativi-tempo-covid/
Autori
Università degli studi di Modena e Reggio Emilia